Nel mio lavoro come Psicologa dell’Emergenza ho potuto osservare che c’è una tendenza generale di genitori, insegnanti e anche Psicologi, nel ritenere l’idea di morte separata dall’idea che abbiamo di bambino.
Questo secondo me probabilmente perché c’è una difficoltà negli adulti a parlare di morte con i bambini. Non perché questi non ne abbiano una loro idea anche precoce, ma perché forse è proprio difficile dare una spiegazione anche a se stessi.
Vedremo più avanti come anche la letteratura spieghi molto bene come i bambini si avvicinino e affrontino l’idea della morte, ma in un intervento in emergenza mi sono trovata con altri colleghi a ignorare la questione.
L’evento traumatico
La mattina del 31 ottobre 2002 una scossa di terremoto uccise 27 bambini di prima elementare a San Giuliano di Puglia in Molise.
Altri 57 bambini rimasero sotto le macerie per ore.
Il 5 novembre è iniziato il mio intervento sul territorio.
Oltre ad applicare il debriefing con l’obiettivo di prevenire il disturbo post traumatico da stress [di cui si è parlato nell’articolo “Il Debriefing psicologico in zone terremotate: un’esperienza diretta“, pubblicato su HumanTrainer.com], avremmo dovuto avere cura dei bambini sopravvissuti.
Tra i nostri obiettivi c’era anche quello di organizzare le attività e il sostegno per loro, ma poi ci siamo fatti prender dai problemi pratici e ce li siamo “dimenticati”.
I volontari, subito dopo il terremoto, hanno lavorato tutto il giorno spostando le macerie con delicatezza per non provocare altri crolli e parlando in continuazione ai bambini rimasti intrappolati.
Bambini di seconda, terza, quarta e quinta elementare hanno sentito parlare e piangere i compagni di prima con i loro genitori, fino a quando questi bambini non hanno risposto più.
Conoscenze della morte legate all’età
Dalla letteratura scientifica (Sunderland M., 2007; Vianello R., Marin M.L., 1985; Markham U., 1997) apprendiamo che i bambini sperimentano il fenomeno della morte abbastanza precocemente.
Anche solo osservando le cose che “finiscono” (una torta, una candela, una canzone), che prima esistevano e poi non ci sono più, iniziano a distinguere cose che finiscono ma riappaiono e cose che finiscono e non tornano più.
In modo più specifico iniziano a vedere insetti o animali morti, incidenti stradali…
Iniziano a confrontare le varie immagini della morte che arrivano dalle favole con la loro esperienza quotidiana (la televisione li mette continuamente in contatto con la morte). Per questo gli adulti dovrebbero parlarne per chiarire e per fare in modo che non nascano idee distorte.
Prima dei tre anni, il bambino inizia a formarsi un’idea di morte vedendo insetti o piccoli animali e si dà delle spiegazioni (ad esempio se si va dal dottore si resuscita oppure pensa che muoiano solo i cattivi).
Quando inizia la scuola materna comincia a capire che la morte è una cosa reale ma pensa che si possa evitare, che sia causata solo da incidenti.
All’inizio della scuola elementare il bambino comincia a capire che la morte può colpire tutti e che può avere cause diverse.
Dai 7 o 8 anni è possibile una vera elaborazione del lutto e verso i 10 anni la morte assume caratteristiche di irreversibilità, universalità e imprevedibilità.
Durante l’adolescenza il ragazzo è affascinato dalla morte, ci pensa molto, ma ancora non si rende davvero conto del suo carattere definitivo e che possa toccare anche lui.
Come spiegare la morte
Per spiegare la morte ai bambini è utile parlarne come “assenza di vita”.
Di fronte a un imminente lutto è possibile parlarne attraverso racconti o storie o facendo degli esempi tratti dalla quotidianità che non coinvolgano il bambino emotivamente.
Ad esempio parlare di un insetto morto, di quello che faceva quando era vivo, di quello che non può fare più.
È importante parlare dei sentimenti, di come ci si sente tristi e di quello che si può fare (ad esempio seppellirlo). I bambini amano molto cerimonie e rituali (Sunderland M., 2007).
Frasi da evitare!
Sono da evitare tutte quelle frasi che di fatto si usano più spesso con l’illusione di rendere la morte più accettabile per il bambino.
Ad esempio dire: «Gesù lo amava così tanto che ha deciso di portarlo in paradiso» fa pensare al bambino che forse Gesù non ama lui come «chi si è portato via» e può desiderare di andare presto in Paradiso anche lui.
Usare metafore come: «L’abbiamo perduto», «Sta dormendo», «È volato in cielo» genera confusione e paura anche in/per cose normali (dormire, prendere un aereo).
Ansia, paura di addormentarsi da solo, incubi notturni ne sono la logica conseguenza.
Per aiutare il bambino a comprendere ed elaborare “l’irreversibile assenza/scomparsa” è meglio essere espliciti e usare la parola “morte” (Arènes J., 2000).
Reazioni a breve termine a una morte
In generale nei bambini si riscontrano una serie di reazioni a breve termine, via via più complesse o intense con l’innalzarsi dell’età e quindi della consapevolezza.
Di fronte alla morte di qualcuno, tanto più se “importante” (un genitore, un nonno, un amico…), il bambino può sviluppare uno stato di ansia, sia legato alla perdita vera e propria che conseguente al clima di tensione che respira intorno a sé.
Potrebbe sviluppare un attaccamento ossessivo nel tentativo di avere un controllo sulle persone e sugli eventi, cercando anche di non restare mai da solo.
Ad esempio potrebbe aver paura di entrare in una stanza da solo o di restare da solo in bagno, anche se prima non dimostrava nessun disagio: avere una persona “sotto gli occhi” lo rassicura sul fatto che questa non possa scomparire.
Il dolore associato a un lutto può comportare un aumento del Cortisolo (ormone dello stress) che, se non viene liberato (se il bambino non trova uno sfogo allo stress, un modo per rilassarsi) fa bloccare nel cervello ogni fonte chimica di piacere e il bambino diventa depresso (Sunderland M., 2007).
L’aumento dell’attività motoria aiuta il bambino a sfogarsi.
In particolare, quanto più il bambino è piccolo tanto più la “scarica motoria” (ossia agitazione, irrequietezza, “capricci”…) è il solo modo che conosce per esprimersi.
Spesso non riesce a piangere o a parlar della perdita perché aspetta quasi di vedere un adulto fare lo stesso per avere la sua “autorizzazione”.
La negazione, invece, è un meccanismo di difesa che deve avere una breve durata per non provocare fissazione nei comportamenti.
Spesso i bambini cercano di fare o pensare a cose piacevoli per distrarsi dal pensiero triste. A volte alcuni bambini si attaccano morbosamente a un oggetto, a un giocattolo, e si disperano se lo perdono di vista anche momentaneamente.
Reazioni a lungo termine alla morte
Così come per gli adulti le reazioni alla perdita di qualcuno possono essere suddivise in diversi stadi, che evolvono nel tempo.
Markham U., 1997; Sunderland M., 2007
Dalla teoria all’esperienza: l’intervento a San Giuliano
Con tutta questa “teoria” nella mente, nel 2002 sono arrivata a San Giuliano.
La situazione che io e la mia equipe abbiamo trovato era molto diversa da quella che ci eravamo immaginati, ma forse non avevamo avuto il tempo di immaginare molto.
Oltre a dar sostegno alle famiglie dei bambini morti nel terremoto, dovevamo occuparci anche degli altri bambini rimasti sotto le macerie e sopravvissuti o degli adolescenti che avevano perso un fratellino o un cuginetto.
Io forse mi immaginavo che le famiglie sarebbero state contente di essere ascoltate, e che i sopravvissuti fossero solo contenti di essere sopravvissuti. Invece nessuno aveva voglia di parlare e bambini grandi avevano razioni da bambini piccoli e viceversa.
Il sottotono degli adulti era in contrasto con il tono sopra le righe dei bambini e dei ragazzi. I bambini, nel campo attrezzato dalla Protezione Civile, erano lasciati a se stessi per quasi l’intera giornata.
Abituati comunque a vivere in un piccolo paese, dove si conoscono tutti, era “normale” giocare per strada tra di loro, stare in giro tutto il giorno e tornare magari la sera per mangiare. Nel campo gli adulti hanno continuato a lasciarli liberi, anche perché presi da altre preoccupazioni.
Effettivamente i bambini non correvano nessun pericolo, sempre sotto gli occhi di tutti, mentre i genitori si occupavano di recuperare oggetti dalle case inagibili, di chiedere prestiti, compilare scartoffie e recuperare coperte per proteggersi dal freddo.
Per tutto il giorno, fino a quando non è ripresa una sorta di lezioni nella tenda adibita a scuola, giocavano tra le tende, apparentemente allegri. Li si vedeva fermi solo durante gli orari dei pasti, seduti con la famiglia nelle lunghe panche della mensa della Protezione Civile.
Quando si è presi dai problemi pratici o concentrati a “soccorrere” chi piange e si dispera, è difficile pensare che chi ride o è iperattivo stia soffrendo altrimenti, sia traumatizzato.
Anche noi soccorritori abbiamo sottovalutato, o per meglio dire ignorato, questa fascia di “traumatizzati”.
Mentre i bambini “ipergiocavano” (passatemi il termine) e gli adolescenti avevano ricostruito il “muretto” parlando solo tra loro, gli adulti pensavano a risolvere le questioni pratiche.
Anche io mi sono fatta prendere dalle questioni pratiche, come il resto degli adulti (con la differenza che io ero una Psicologa che doveva pensare agli aspetti appunto psicologici!), e solo dopo settimane sono riuscita a soffermarmi a riflettere su quello che avevo vissuto e su come lo avevo affrontato (o evitato di affrontare).
Le attività delle varie associazioni si limitavano a dare momenti di svago e divertimento più strutturato rispetto al gioco libero, con l’obiettivo di distrarre e divertire.
Al campo sono arrivati personaggi famosi, giocolieri, clown e attori.
Ogni giorno i bambini si aspettavano un evento spettacolare e non venivano mai delusi.
In realtà l’attenzione di tutti, nel senso dei mass media, dell’opinione pubblica e di tutta Italia era rivolta a loro, ai “bambini sopravvissuti”. Senza dimenticare che eravamo in un periodo pre-natalizio, arrivavano camion di giocattoli, di panettoni, di vestiti, di soldi per loro.
Tutti i bambini avevano orologi nuovi, playstation, palloni firmati da giocatori, vestiti e nuovissimi conti correnti. I bambini sopravvissuti finivano per essere contenti di questa situazione, avevano più cose di quante non ne avessero mai avute, non riuscivano a scrivere la lettera a Babbo Natale perché era arrivato già tutto.
Mentre io cercavo di tenere fuori i giornalisti dal Campo, spiegando ai genitori che era meglio che non intervistassero i bambini, loro facevano a gara per avere più foto sul giornale o più autografi.
Probabilmente i bambini erano contenti per tutta quella attenzione e per i regali che non avevano mai ricevuto prima e contemporaneamente avevano sensi di colpa verso gli amichetti che non c’erano più, per essere sopravvissuti e aver ottenuto tutto quello “grazie” al terremoto.
Solo successivamente, dopo alcune settimane, si è riusciti a riprendere un ritmo più normale, con l’apertura della scuola, anche se per poche ore al giorno, e con interventi di sostegno rivolti ai più piccoli e attività mirate all’espressione dei loro sentimenti rispetto al terremoto e alla morte.
Solo dopo qualche tempo dal sisma è stato possibile intervenire psicologicamente.
Prima la realtà era troppo ingombrante, troppo lacerante per essere mentalizzata, da tutti grandi e piccoli, operatori inclusi.
Conclusioni
Al di là delle difficoltà oggettive, delle questioni pratiche che impegnavano il tempo e la mente degli adulti, credo che ci sia stata una difficoltà di tutti nell’affrontare il tema della morte con i bambini.
Ci si illudeva che loro potessero esserne tenuti fuori, che riuscissero a divertirsi da soli e non avessero bisogno di altro. Si regalavano loro oggetti perché non si sapeva che cos’altro dare.
Noi “Psicologi dell’Emergenza” pensavamo all’emergenza di chi piangeva o chiedeva esplicitamente aiuto.
Io, “Psicologa dell’Emergenza”, preferivo girare in macchina tra i paesi, cercare gli omogenizzati che mi avevano chiesto, fare liste di cose che servivano in un campo piuttosto che in un altro, parlare con la vecchietta che mi fermava nella mensa.
Cercavo di mimetizzarmi e dare una mano, senza mettermi il cartellino con scritto “Psicologa” o passare per le tende adibite ai colloqui.
Facevo la Psicologa in incognito.
Ma mi sentivo poco professionale rispetto ai colleghi che partecipavano alle riunioni, col cartellino al collo e l’agenda con gli appuntamenti.
In generale posso dire che il nostro intervento ha funzionato non nell’immediato, rispetto agli obiettivi di sostegno che avevamo, ma più nel lungo termine.
L’intervento precoce può porre le basi per una relazione futura.
Partecipare alla vita quotidiana, aiutare anche nelle cose pratiche e essere disponibili a colloqui estemporanei hanno aiutato a costruire una relazione di fiducia che poi, nelle settimane successive, ha permesso ai colleghi di svolgere un intervento più mirato e strutturato.
Le persone si sono spontaneamente ricostruite i loro punti di aggregazione abituali (il muretto, il bar, il barbiere) e il sentirsi coinvolte nella ricostruzione del paese e delle sue abitudini le ha aiutate a sentirsi utili e costruttive, quando intorno tutto era distrutto.
I soccorritori, invece, non sono riusciti a gestire in modo adeguato i mass media.
Gli Psicologi facevano a gara per accaparrarsi più utenti, avevano difficoltà a parlare seduti per terra o nella confusione dell’ora di pranzo, senza un “setting” abituale.
Di fatto credo che la nostra preparazione fosse troppo teorica e che non fossi preparata a tutte le cose concrete che ho visto. Non ero preparata a vedere bambini che giocano a calcio con i panettoni, ad ascoltare persone che mi raccontavano che il terremoto ha un “rumore”.
Per intervenire in modo efficace in questi difficili contesti, ci deve essere una capacità di allontanarsi dai libri, una elasticità mentale che nessuno ti può insegnare.
Credo serva una disposizione soprattutto caratteriale per poter essere così elastici.
Ho capito che ero molto preparata teoricamente, i libri li sapevo, ma essendo un mio primo intervento sul campo, la teoria non mi è stata non mi è stata molto di aiuto nella pratica, la “realtà devastante e traumatica” è un’altra cosa.
Paradossalmente mi ha aiutato aver fatto gli Scout, il non avere problemi a mangiare seduta per terra, senza potermi lavare le mani.
Di sicuro avevo troppe aspettative sulle nostre (mie) capacità e la cosa più difficile è stata sopportare la frustrazione e capire che un intervento deve partire dalla gente. Dobbiamo rispondere ai bisogni e non portare soluzioni precostituite che nessuno vuole.
Credo che un collega che cominci a fare questi interventi debba tenere a mente che il rischio è quello di farsi troppo coinvolgere emotivamente o, al contrario, rimanere di ghiaccio di fronte alla sofferenza e al dolore altrui.
Io oscillavo da un estremo all’altro, anche nell’arco della stessa giornata, ogni volta iper correggendo il mio comportamento.
Bibliografia
- Arènes J., “Dimmi, un giorno morirò anch’io??, Magi, Roma 2000
- Bertozzi L., “I bambini soldato“, Emi, Bologna, 2003
- Brauner A., Brauner F., “Ho disegnato la guerra“, Erickson, Trento, 2003
- Emili F., “Una casa per un po‘”, Magi, Roma, 2005
- Fitzgerald H., “Mi manchi tanto“, La Meridiana, Milano, 2002
- Lo Iacono G., Aiutare i bambini sopravvissuti a calamità, in “Psicologia e Psicologi”, Vol. 1, nr. 3, Erickson, Trento, 2001
- Markham U., “L’elaborazione del lutto“, Mondadori, Milano 1997
- Sunderland M., “Aiutare i Bambini… a superare lutti e perdite“, Erickson, Trento, 2007
- Vianello R., Marin M.L., “La comprensione della morte nel bambino“, Giunti, Firenze, 1985
- Zajde N., “I figli dei sopravvissuti“, Moretti e Vitali, Bergamo, 2002
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