(fino ad allora nulla ci vieta di pensarci tantissimo. E magari di farcelo sapere).
Ho trovato questa frase in questi giorni, rappresenta quello che sempre di più mi trovo a pensare in queste settimane. Come psicologa non sollecito il contatto con i pazienti ma non mi sottraggo se qualcuno di loro mi tiene la mano con insistenza salutandomi, o mi abbraccia o mi bacia andando via. La volta successiva magari ne parliamo. E spesso i pensieri vanno al senso del contatto fisico, a come lo viviamo nella quotidianità.
Aspetto i pazienti sulla porta, stringo loro la mano e chiudo la porta della mia stanza. Quando vanno via a volte tocco un braccio, una spalla se penso possa avere un senso. Tengo la mano se me la chiedono raccontandomi di un lutto, abbraccio se c’è qualcosa da festeggiare.
Già prima di chiudere lo studio negli ultimi giorni non ci stringevamo più la mano e le poltroncine erano più distanti del solito.
Ora che i colloqui sono passati in video chiamata, molti pazienti che non avevano l’abitudine al contatto mi salutano dicendomi che vorrebbero abbracciarmi, che lo fanno virtualmente e che lo faranno appena ci incontreremo di nuovo.
L’abitudine al contatto fisico è anche molto legata alla cultura, ed è la cosa che mi ha più colpito più di venti anni fa trasferendomi al nord da Roma: non è così comune salutarsi anche tra conoscenti con baci sulle guance, non ci si tocca quando si parla.
Al di là della relazione con i pazienti, che deve avere significati diversi, il contatto con le persone, amici o colleghi, difficilmente lo riesco ad evitare. Mi sforzo di rimanere distante solo se vedo un fastidio dall’altra parte.
In questi giorni alcuni saranno facilitati a mantenere le distanze di sicurezza e le indicazioni, altri soffriranno per questa mancanza di contatto. Altri sentiranno la mancanza di qualcosa di vitale.
Come per i neonati, anche per noi essere accarezzati permette di differenziare sè stessi dall’esterno, di percepire il proprio corpo e il proprio valore in base alla qualità del contatto.
I contatti di questi giorni si sono trasformati in telefonate, video chiamate, messaggi, audio, vignette e foto che permettono di dire “io ci sono e penso a te”.
Mi permette di non lasciare da soli i pazienti, vedendo un pezzetto anche della loro casa alle loro spalle (alcuni mi mostrano le piante o la libreria o le foto alle pareti), mi permette di mandare un messaggio (cosa che mai avrei fatto prima) per sapere come stanno le persone che non possono continuare i colloqui in videochiamata.
Perchè se ora non ci possiamo toccare, possiamo pensarci e dircelo, per poi tornare ad abbracciarci quando sarà possibile.
Con la consapevolezza di avere un modo prezioso di comunicare.
Io, che scrivo al computer, lavoro, telefono, cucino, leggo e prendo il sole dalla finestra sto aspettando soprattutto quel momento, perchè tra due giorni è primavera e “la pioggia ti bagna, ma il sole ti asciuga”.
Francesca Emili
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