Dire, fare… Essere: il Gioco e la Fiaba per un’educazione confluente.
Nell’Approccio Rogersiano (Rogers, 1951), all’interno dei processi di educazione confluente – contraddistinta dall’unione di idee e sentimenti (Bruzzone, 2007) – si suole suddividere il Sapere in tre aree distinte, ma, allo stesso tempo, profondamente complementari: il “Sapere” che ha a che fare con le nozioni, la teoria, i concetti la padronanza di contenuti; il “Saper Fare”, ossia l’aspetto applicativo delle proprie conoscenze, e, dulcis in fundo ma non meno importante, il “Saper Essere”, o, in altri termini, ciò che concerne la propria soggettiva autenticità o congruenza (Rogers, 1957), la cui presenza è “garanzia” di apertura all’esperienza e, di conseguenza, di cambiamento e adattamento. Potremmo dire che il possedere una sufficiente autenticità equivale ad avere, dentro di sé, i mattoni della salute mentale, intesa come benessere bio – psico – sociale.
Saper Essere
In soldoni, “Saper Essere” significa avere sviluppato ciò che l’OMS definisce life skills: competenza emotiva, hardiness e resilienza, e meccanismi di coping e problem solving sufficientemente funzionali ed efficaci.
Quindi, il “Saper Essere” concerne la possibilità della Persona di attingere e relazionarsi con sé e il Mondo attraverso l’empatia, l’accettazione e, appunto, la congruenza (ibidem), senza dimenticare lo sviluppo delle proprie capacità di adattamento e cambiamento (o, come direbbe Piaget, di assimilazione e accomodamento).
I coper efficaci (Howell, Zucconi, 2003), allora, sono Persone aperte al nuovo, profondamente a contatto con la propria esperienza viscerale, sperimentatori di ciò che è ignoto, dove le sfide vengono affrontate, sì con naturale paura, ma anche con vitale coraggio.
L’apprendimento infantile – Il gioco e la fiaba
Nel campo proprio dell’apprendimento infantile, possiamo notare come questi tre Saperi, tra loro interconnessi, si sviluppino grazie al linguaggio proprio del bambino che si approccia al simbolico, quale quello animistico, ludico/espressivo.
Il gioco, infatti, come sostiene Maria Montessori, è il lavoro del bambino: il bimbo, infatti, è portato naturalmente a sperimentare e costruire attivamente il proprio ambiente, apprendendo da esso, impilando, seriando, incastrando tutto ciò che è sotto i suoi occhi. Non solo! Il prodotto, una volta ottenuto, viene animato e donato di nuove funzioni (il famoso gioco del “far finta”). L’oggetto diventa simbolo e significante di qualcosa d’altro. Soprattutto da un punto di vista affettivo.
Da un punto di vista di tolleranza alla frustrazione, inoltre, Freud dimostrò, grazie all’osservazione del Gioco del Rocchetto (Fort! – Da!) di suo nipote Ernst (Freud, 1920), quanto il giocare creativo potesse sublimare l’angoscia dell’assenza del proprio oggetto d’amore; in quel caso, della madre. Oltre a sviluppare, paradossalmente grazie alla mancanza, la fonte creativa: o, alla rogersiana, ciò che si definisce “Tendenza Attaulizzante” (Rogers, 1980), ossia quella naturale spinta all’accrescimento e all’autorealizzazione (ibidem).
Infatti, “è nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo […] è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé” (Winnicott, 1971).
Così l’expertise si forma e si concretizza attraverso l’interconnessione tra il Sapere (la conoscenza dell’oggetto, come può essere una scatola, un tappo di sughero, piuttosto che un peluche), il suo uso pratico (la scatola che diventa una macchina) o Saper Fare, che diviene Saper Essere o Essenza Creativa, affettività piena, perché gratificante e trasformativa. Il Gioco, allora, diviene anche Simbolico, alla stregua di un essere parlante dotato di emozione pura. Pensiamo, ad esempio, al gioco delle bambole, dove l’empatia, grazie all’identificazione con il “To Care” genitoriale, raggiunge il suo acme.
E, quindi, è l’elevazione al Simbolico che permette al bambino l’acquisizione di un Apprendimento olistico, totale, viscerale, autentico.
Ciò vale anche per la lettura. Noi adulti sappiamo quanto il leggere ci possa far commuovere, arrabbiare, imprecare. Perché succede questo? Perché sappiamo empatizzare con ciò che ci trasmettono le pagine, con i personaggi, le vicende. Come con il gioco, anche con la Lettura, costruiamo la realtà in modo soggettivo, unico e irripetibile (Rogers, 1980).
E le Fiabe, in quando prodotti culturali sui generis, di carattere fantastico (Propp, 1928; 1946, cit. in Carubbi, 2019), profondamenti evocativi (Bettelheim, 1975) e soggettivamente interpretabili, sono efficaci facilitatrici dell’apprendimento di cui sopra. Perché il bambino si immedesima con l’eroe che si perde nel Bosco, che ha paura di ciò che non conosce, ma che stringe i denti, si risolleva e va avanti, nonostante i pericoli, le incognite (Carubbi, 2018): “i protagonisti delle Fiabe sono eroi di resilienza, di perseveranza, di desideri brucianti” (Carubbi, 2018, p. VI). Gli eroi dei Racconti Magici (Propp, 196) divengono, allora, testimoni di uno stile educativo che umanizza l’essere umano. E, da qui, il bambino stesso.